La Spiritualità
Cosa significa spiritualità?
Coltivare la spiritualità vuol dire coltivare il senso e la possibilità del bene, della giustizia, della pace.
Passando dal conflitto, dalle contraddizioni, da tutto ciò che è umano. Senza smettere di cercare dentro di sé, di ascoltarsi.
Può avvenire in un orizzonte di fede, oppure in una visione laica.
La violenza, la guerra, la disumanizzazione operata da esseri umani contro altri esseri umani, la distruzione del creato, la discriminazione dovranno essere viste lucidamente.
Eppure, un possibile inizio è quello di distruggere il male dentro di noi: non c’è altra scelta, diceva Etty Hillesum, se non quella di distruggere in sé stessi quello per cui si ritiene di dover distruggere gli altri perché ‘ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale’.
Le radici del male e le radici del bene hanno propaggini dentro il cuore della terra come in quello dell’uomo. Non si dovrebbe mai vedere il male e il bene come qualcosa di esterno: così si crea il nemico, il mostro, oppure, all’opposto, il santo, il modello irraggiungibile. Se riesco a vedere dentro posso capire quanto è umano ciò che altrimenti mi apparirebbe staccato da me, alieno. E invece nihil humanum a me alienum puto.
Da Parole con Etty
Odiare il nemico non porta che a identificarsi con lui, ogni sviluppo è impedito. Non odiare è un’abilità da coltivare oggi più che mai in tempo di espansione dei cosiddetti odiatori, dentro e fuori i social.
Come fare? Scrive Lingiardi: “non ho risposte a questa domanda se non quella di un’instancabile azione quotidiana per il ‘noi’, ciascuno nel modo in cui è capace“.
Occorre un metodo: cercare una stille Stunde – un’ ora quieta – come propone Etty, per dissodare, mettere in ordine quel mondo interiore che è un terreno a maggese, incolto.
E questo lavoro interiore, per rendere sempre conto a noi stessi di ciò che proviamo e facciamo, è il fulcro di quella che chiamiamo spiritualità.
La cosa principale è l’equilibrio spirituale, il resto funziona allora da sé
Etty Hillesum
La cosa principale è l’equilibrio spirituale, il resto funziona allora da sé
Etty Hillesum
Ritratto di Etty Hillesum
Esther Hillesum, chiamata Etty, nasce a Middleburg il 5 gennaio 1914 da una coppia di ebrei non osservanti: Levie, insegnante di lettere classiche, poi preside in un liceo di Deventer, e Rebecca Bernstein, nata in Russia e sfuggita ad un pogrom nell’adolescenza, dal carattere molto passionale, ma anche instabile dal punto di vista emotivo.
Ha due fratelli Jaap (nato nel 1916) e Michel (Mischa, nato nel 1920), che ha un talento precoce al piano; entrambi i fratelli, specie Mischa, soffrono di problemi psichiatrici.
Nell’agosto del 1932 Etty si trasferisce ad Amsterdam per studiare diritto all’Università e nel marzo 1937 prende in affitto una camera da Han Wegerif (pa’ Han), un vedovo che l’assume come governante della grande casa, trasformata in pensione (in Gabriel Metsustraat n. 6). Tra i due nascerà presto una relazione sentimentale. Conclusi gli studi in legge nel luglio del 1939, Etty si iscrive alla facoltà di lingue slave con l’intento di approfondire la lingua materna, il russo (darà anche delle ripetizioni per mantenersi).
Accusa problemi psicosomatici (mal di testa e mal di stomaco) e vive in uno stato disordinato, nell’organizzazione delle sue giornate come nelle relazioni sentimentali.
La vita sentimentale di Etty è intensa, va per tentativi, è anche dolorosa ricerca di equilibrio.
Come scriverà lei stessa, si sente afflitta da una sorta di ‘costipazione spirituale’ ed entra quindi in cura dallo psicochirologo Julius Spier (1887-1942), ebreo tedesco dalla personalità affascinante, allievo di Jung e da questi incoraggiato a coltivare il dono di elaborare diagnosi psicologiche a partire dall’esame delle mani
Parole con Etty
Parole con Etty
Ho assistito alla nascita di questo libro: un diario di lettura che ha esitato a lungo prima di sapere se voleva o no essere libro, trattenuto dal pudore nel mostrare quello che è stato un lungo dialogo – immaginario sì, ma non per questo meno reale – con le parole di Etty Hillesum, la ragazza ebrea olandese che prima di finire ad Auschwitz i suoi giovani giorni ci ha lasciato nel Diario scritto ad Amsterdam e nelle Lettere inviate per lo più dal campo di smistamento di Westerbork una sconvolgente testimonianza di sé e del suo tempo: da un lato la straordinaria intelligenza della tenerezza, dall’altro l’atroce cattiveria della mediocrità.
Ora che il libro ha preso forma e ha trovato la sua strada, mi sembra di poter dire che quell’esitazione gli abbia giovato. Le parole nate originariamente in segreto, e non per essere diffuse, hanno mantenuto lo splendore di una lingua asciutta, l’assenza di ammiccamenti seduttivi, la potenza di un’interrogazione che talvolta rimane senza risposta.
E tuttavia il libro ha un suo svolgimento di racconto, un suo percorso narrativo, una capacità alta di domanda etica e di meditazione filosofica che ci fanno rallegrare del fatto che abbia trovato un suo accesso al mondo.
Ma vorrei provare a tracciare con maggiore esattezza le forti linee di tensione che questa piccola opera – lieve nel suono, delicata nei colori, ma drammaticamente robusta nei pensieri – ci offre.